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L’ESTATE DI SGT. PEPPER: un libro da ascoltare

4 Gennaio 2014 - ARCHIVIO
L’ESTATE DI SGT. PEPPER: un libro da ascoltare

 

di: Giorgia Sbuelz

È la storia di un’estate, ma non una qualunque, fu infatti un’estate straordinariamente potente quella del 1967, quando il mondo era un gigantesco calderone in cui ribollivano guerre e rivoluzioni: in Vietnam i B52 americani radevano al suolo interi villaggi, mentre in Biafra la popolazione Ibo moriva di fame quando non veniva sterminata.

Ma puntuale come un principio fisico newtoniano, si sviluppò una reazione “pari e contraria” che poteva contare su una forza di egual misura: il Flower Power.

I giovani rispondevano alle pressioni lasciandosi crescere i capelli, vestendosi con abiti dai colori sgargianti, mentre distribuivano fiori ai poliziotti e li infilavano nelle canne dei fucili; scorrazzavano nei giardini di “paradisi artificiali” ricreati con l’uso di sostanze allucinogene, che venivano assunte anche per sollecitare la liberazione dal retaggio bigotto e opprimente della generazione precedente; il sesso veniva riscoperto e la creatività artistica esplodeva in happening e performance, mentre la puntina del giradischi ballava su LP storici, ballava come il resto del mondo! Perché se questo fu un annus mirabils, lo fu anche per l’immenso contributo da parte della musica, quella con la “emme” maiuscola: i Doors, Bob Dylan, i Rolling Stones, i Beach Boys, Janis Joplin… E naturalmente loro: John, Paul, George e Ringo, in altre parole i Beatles.

I Fab Four si blindarono per sei mesi dal Natale del 1966 negli studi di registrazione, guidati dall’esperienza di George Martin, il produttore discografico della Parlophone, un’etichetta minore della EMI. Martin, che per primo volle credere in loro, seppe intuire il valore di quel gruppo, quel diamante grezzo, che un giorno si presentò nel suo studio ad Abbey Road.

“L’Estate di Sgt. Pepper” è il racconto dell’album leggendario che venne alla luce dopo gli sforzi compiuti non solo dai quattro ragazzi di Liverpool, ma da George Martin stesso e tutto lo staff tecnico a partire da Geoff Emerick. È la narrazione in prima persona e di prima mano, quella affidabile di George Martin, della genesi di un capolavoro che non interessò solo l’ambiente musicale, ma che impattò su tutta la cultura dell’epoca.
Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band, fu l’album che reimpostò la maniera di pensare la musica per tutti gli anni a venire.

Edito da La Lepre, con la prefazione di Stefano Bollani e l’accurata traduzione di Paolo Somigli (direttore del mensile Chitarre), “L’ Estate di Sgt. Pepper” è il libro che aspettavamo in Italia dal 1993. Strane sono infatti le vicissitudini di quest’opera nata vent’anni fa col nome di “Summer of Love. The Making of Sgt. Pepper”, di cui c’è stato un gran parlare nel nostro Paese, pur non essendo mai stata tradotta e rimanendo di fatto introvabile.

George Martin in queste pagine spiega il perché Sgt. Pepper sia stata un’opera completamente innovativa per l’epoca, e spiega come accettò la sfida di tradurre in musica quelle che erano le idee dei “suoi” ragazzi, di volta in volta più ardite, di volta in volta più sensazionali e… psichedeliche. I Beatles infatti, pur essendo compositori dalle trovate geniali, non sapevano scrivere la musica che suonavano, così  per orchestrare e arrangiare, dovettero ricorrere all’esperienza di Martin, che ricordiamo proveniva della Guildhall School of Music e Drama.

Questo connubio produsse pezzi incredibili come “A Day In The Life”, quando alle felici intuizioni di Lennon, Martin aggiunse la partitura per ben 41 membri dell’orchestra sinfonica, che doveva intervenire a colmare le 24 battute vuote nel centro della canzone, creando così il famoso crescendo orchestrale dissonante che è la memorabile caratteristica di questo brano.

Martin descrive le effettive difficoltà tecniche dell’epoca, limiti che non sempre potevano accontentare le trovate pretenziose dei Fab Four, in particolar modo John non era mai pienamente soddisfatto dei risultati, poiché la produzione non riusciva a rispecchiare fedelmente il suo pensato.

Eppure Martin faceva letteralmente dei miracoli col suo master a quattro piste e un’ attrezzatura che oggi desterebbe tenerezza, specie se paragonata ai sofisticati mezzi elettronici indispensabili nelle sale di registrazione moderne.

E mentre Sgt. Pepper via via si delineava come “concept” album, uno dei primi, e sicuramente uno dei più significativi, George Martin, attraverso la sua narrazione, fa emergere le storie e gli aneddoti che accompagnarono quel lavoro. Rilascia un ritratto autentico dei ragazzi, delle loro personalità, con le incomprensioni e le piccole manie, presentate semplicemente, tratte dal quotidiano, quindi più credibili, lontane dalla rilettura “post-mito” che fecero molti.

John era il ragazzo perennemente insicuro della propria voce, al punto che dovettero inserirla in un altoparlante Leslie e creare quell’effetto doppler, dal sapore etereo, da “monaco tibetano” come diceva lui, che costituì poi la sua peculiarità.

Paul era il più portato a livello compositivo, il più concentrato, un musicista completo, realmente interessato anche all’aspetto tecnico della creazione musicale.

George era “l’elemento imprevedibile”, diede la svolta decisiva alla produzione dei Beatles, aggiunse un’intera gamma di strumenti musicali indiani che fecero del sound del gruppo qualcosa di davvero originale. Anche se in queste pagine si legge un George ancora in fase di ricerca, che vedeva spesso le proprie canzoni bocciate, e che non ebbe, nell’unica sua canzone contenuta nell’album, Within You Without You, l’apporto dei suoi compagni.

Ringo, fortemente apprezzato da Martin, era il più puntuale fra i quattro. Era entrato nella band al posto di Pete Best, con la consapevolezza di far parte di un gruppo di ottimi musicisti, “i migliori di Liverpool”, e si mantenne sempre all’altezza delle aspettative.

Ritratti spontanei, non stereotipati, anche perché Martin vuole soprattutto parlare di musica, lasciandosi andare ai ricordi, e facendo emergere quel genuino affetto che lo legava ai quattro.

A tratti è nostalgico, in particolar modo quando si riferisce a John  (George, all’epoca della stesura del libro, era ancora vivo e attivo artisticamente) ma mai si lascia andare al banale sentimentalismo, del resto come avrebbe potuto lui, il “duca di Edimburgo”?

“L’Estate di Sgt. Pepper” è davvero un libro da ascoltare, pagina dopo pagina, canzone dopo canzone. Nessuno si lascerà sfuggire l’occasione di farsi accompagnare nella lettura da quelle melodie che hanno fatto storia, le stesse la cui creazione è narrata dall’autore così minuziosamente. Anzi si finirà inesorabilmente per riascoltare l’intero album con un’ottica diversa, una consapevolezza maggiore, quella che Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band rimarrà un ponte sospeso sul tempo, da poter attraversare avanti ed indietro guidati dal suono di quelle inconfondibili note.