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Prof. Liverani all'Accademia dei Lincei: la Torre di Babele

10 Gennaio 2014 - ARCHIVIO

Lectio brevis, 10 gennaio 2014

 

 

Pur essendo dedito ad un settore della storia che è alquanto lontano da noi, più nel tempo che non nello spazio, sono convinto che il nostro interesse per la storia sia commisurato a quanto essa interferisca col nostro presente. Un processo storico o un evento storico che non abbia alcuna ricaduta nella nostra contemporaneità, direi anzi nella nostra vita, non ci riguarda. Naturalmente oggi la situazione è ben diversa da quella – tanto per citare – di un Benedetto Croce che nell’ambito della sua convinzione che tutta la storia è storia contemporanea diceva ad esempio che è giusto far iniziare la storia della storiografia da Erodoto, non perché non ci fosse storia prima di Erodoto (tutte le culture concepiscono e collegano in qualche modo il passato al loro presente), ma perché è solo allora che il nostro interesse in proposito si fa più vivo. Ma oggi, nel mondo globalizzato, gli orizzonti dei nostri interessi e della nostra contemporaneità si stanno ampliando e di molto.

Comunque anni fa, non credo per masochismo ma semplicemente per onestà, proposi che i manuali di storia, i manuali scolastici in particolare, dovessero essere scritti su tre colonne: nella colonna centrale si mette il racconto dell’evento, o l’analisi del processo in questione; sulla colonna di sinistra si mettono le parole o i modi di dire che alludono ad esso, le esegesi che ne sono state fatte, le idee critiche e al limite filosofiche che ne sono scaturite; sulla colonna di destra si mettono le opere d’arte (dalla letteratura al teatro alle arti figurative e fino alla fiction televisiva) che ne hanno tratto ispirazione. Se una pagina ha le colonne laterali desolatamente vuote, vuol dire che quel fatto o momento storico non ha avuto ricadute, non ci interessa; se invece le colonne laterali di quella pagina sono più o meno piene ecco che il lettore (lo studente) può facilmente collegarlo con la sua cultura e con il suo mondo.

Concludevo allora riconoscendo che gran parte della storia orientale antica avrebbe colonne laterali piuttosto vuote – almeno negli eventi di breve termine, ben diverso essendo invece l’impatto dei grandi fenomeni di lunga durata, dalla prima urbanizzazione e della statalizzazione all’origine della scrittura e della burocrazia, per non dire di tante altre componenti della nostra stessa cultura, banali o essenziali, dalla divisione sessagesimale del tempo fino al monoteismo, tanto per esemplificare. C’è però un’eccezione, c’è almeno una pagina di storia orientale antica le cui colonne laterali risulterebbero talmente piene da trasbordarne i limiti, ed è la pagina in cui si parla della Torre di Babele. Anche chi non ha mai letto il passo biblico in genere sa qualcosa – per sentito dire – del mito della torre, della presunzione umana e della punizione divina, e soprattutto sa della confusione delle lingue che ne derivò. E anche chi non sapesse neppure questo, però almeno saprebbe che “babele” significa caos, confusione, e dirà anche lui “la babele del traffico”, “la babele dei regolamenti”, e così via. Alla fine del mio libro su “Immaginare Babele” notavo come oggi ci siano esempi innumerevoli del nome Babele o Babilonia usato per bar, night club, ristoranti, discoteche, centri commerciali, grandi magazzini, siti-web, canali TV, rubriche giornalistiche, scuole di lingue, dizionari e traduttori automatici, film di fantascienza e di horror, serie televisive, compagnie teatrali, canzonette, e così via.

Vediamo dunque come comporrei la pagina sulla Torre di Babele del mio manuale ideale che ovviamente non scriverò mai. Nella colonna centrale, dicevo, dovrei narrare l’evento storico, e qui già c’è un problema. Si tratta in effetti di un mito, non di un avvenimento storico, e si tratta di un mito biblico, non babilonese. Dove dovrei dunque collocarlo? Esiste una collocazione storica di questo mito? Ovviamente esiste , ed ovviamente è nell’esilio babilonese dei deportati giudei, che videro le grandi torri templari, le ziggurat come si dice in babilonese, e forse ci lavorarono essi stessi, se non alla costruzione almeno ad uno dei periodici restauri. Lo metterei dunque nella Babilonia di Nabucodonosor II, a proposito dei deportati da Gerusalemme. Nella colonna centrale dunque scriverei qualcosa come:

 

Nel paesaggio babilonese, piatto a perdita d’occhio, s’erge il rudere antico, la torre che arriva in cielo. Gli esuli Giudei nel loro paese non hanno nulla di simile. In Palestina il paesaggio naturale è mosso, gli abitati umani si addossano alle colline e quasi si nascondono in esse. Le montagne che toccano il cielo sono opera di Dio. Gli uomini antichi, che costruirono la torre, volevano forse competere con Dio? Non era questa la motivazione originale, i costruttori antichi volevano stabilire un punto d’incontro tra cielo e terra (questo più o meno significa il nome sumerico della torre di Babilonia, Etemenanki), volevano facilitare la discesa divina nel mondo umano, simboleggiare l’aspirazione umana al cielo. Ma forse sognare un incontro tra uomo e Dio è già un atto d’enorme tracotanza.

La torre è incompleta, e dunque i costruttori hanno dovuto interrompere la loro folle impresa, certo bloccati da Dio. In realtà la torre era stata completata, ma ora è in rovina. Il rudere sembra un progetto incompiuto. E’ invece segno della temporaneità delle costruzioni umane. Il mattone crudo si disgrega col tempo e le intemperie. Ogni tanto occorre provvedere al restauro. Il re riedifica le parti crollate, rintraccia le iscrizioni dei suoi predecessori, le rimette in posto e vi aggiunge la sua, in un’ideale staffetta che dura millenni.

L’impero universale e multi-etnico mette all’opera turbe di deportati per restaurare la torre. I sorveglianti parlano babilonese, ma gli operai parlano una miriade di lingue diverse: ci sono aramei e arabi, ebrei e fenici, medi ed elamiti, frigi e urartei. Fanno fatica a capirsi e a capire gli ordini dei capi-squadra. Il mito racconta che una volta il problema non c’era, che tutti gli uomini parlavano una sola lingua, la lingua perfetta creata da dio; ma che poi le lingue – affidate agli uomini – si sono corrotte e diversificate fino a diventare incomprensibili l’una rispetto all’altra. L’impero dice l’opposto: le lingue d’origine sono diverse (come diversi sono i costumi, le leggi, le religioni), ma l’unificazione imperiale e il lavoro in comune produrranno l’unificazione linguistica. Il grande Sargon d’Assiria così si esprime: “Sudditi delle quattro parti del mondo, di lingue diverse, di espressioni intraducibili, abitanti di montagne e pianure, ma tutti soggetti alla luce degli dèi, signore della totalità, che io avevo deportati per ordine del mio signore Assur e per la potenza del mio scettro, io li sottoposi ad un comando unificato e li insediai. Assiri, capaci di insegnar loro il timor di dio e del re, io assegnai loro come scribi e sorveglianti. Dopo che ebbi così completato la costruzione della città e del mio palazzo, ecc.”. Dunque dice di averli resi “di una sola bocca”, cioè obbedienti ad un solo comando, espresso in una sola lingua. Non c’era mai stata una lingua unica originaria, è l’impero universale che ora riunisce i popoli, unifica le lingue, mette tutti sotto la stessa legge, tutti a lavorare insieme, tutti a temere gli stessi dèi – quelli dell’imperatore.

Il mito biblico e la propaganda imperiale parlano delle stesse cose, ma in modo diverso, e non so quale delle due rifletta meno peggio la realtà. Il mito cerca una spiegazione indietro nel tempo e ci parla di una perfezione originaria che poi è andata corrompendosi per la cattiveria umana e la punizione divina. L’impero esprime un progetto avviato per il futuro, e ci dice di aver unificato il mondo intero e di aver portato a compimento l’opera divina della creazione. In mezzo sta una realtà che è fatta di faticoso lavoro e di duro servaggio, di paesaggio disgregato e cosparso di ruderi, d’incomprensione e di conflitto, di sradicamento e deculturazione.”

 

Così io descriverei, così inquadrerei storicamente, il mito biblico. E se lo spazio concessomi me lo consentisse, forse aggiungerei a confronto un altro testo, babilonese questa volta, una lettera scritta dalla città all’imperatore assiro, in cui la diversità e commistione inter-etnica è rivendicata quale caratteristica positiva, in qualche modo “liberale” di Babilonia, in polemica anche alquanto esplicita con la macchina unificatrice dell’impero:

 

Messaggio che i Babilonesi hanno rivolto al re. I re nostri signori si sono sempre curati, al momento stesso del loro insediamento sul trono, di confermare la nostra autonomia e la pace dei nostri cuori, e noi (a nostra volta) di far stare in pace coloro che abitano il nostro paese, siano essi pure una donna elamita o una di Tabal (la Cappadocia), o una Akhlamu (cioè una nomade). I re nostri signori hanno sempre riconosciuto: ‘Gli dèi vi hanno concesso vasto intendimento e grande cuore, Babilonia è il seme delle terre, l’unione delle terre.’ Chiunque entra dentro di essa, la sua autonomia è garantita … Neppure un cane che entra può essere ucciso! …”

 

Nella stessa formulazione del mito biblico si intrecciano elementi tipicamente attribuibili ai deportati di provenienza palestinese (abituati ad un paesaggio diverso e a città più modeste) ed elementi tipicamente mesopotamici. La stessa “morale” della storia, e cioè che l’ambizione umana va incontro alla punizione divina era già correntemente applicata al caso della città che vuol raggiungere il cielo in una serie di presagi basati sulla configurazione delle città e delle case (la serie chiamata Šumma âlu “Se una città” dal suo incipit): “Se una città si erge fino al cielo, come un picco montano, quella città sarà ridotta a un mucchio di macerie”, ed altri presagi analoghi. Ma si noti che nei presagi babilonesi prevale lo stilema degli opposti (chi si innalza sarà abbassato, chi si abbassa sarà innalzato), e infatti alla città collocata in una depressione si pronostica ogni fortuna, invece nel testo biblico prevale il senso morale e teologico.

Il mito biblico però riguarda soprattutto la lingua, assegnando valore positivo all’unità e negativo alla differenziazione, e assegnando l’unità al passato delle origini perfette e il processo di differenziazione al presente umano e disgregato. Che le lingue umane vadano dall’unità alla diversità è idea del tutto ovvia, radicata nella visione genealogica dell’umanità: Adamo ed Eva di certo parlavano una sola lingua, i loro discendenti man mano che si sono articolati, dando vita a popoli diversi, hanno diversificato anche le loro lingue. Il processo è talmente ovvio, che quando si è trovato un testo sumerico che parlava della lingua unica, si è subito – direi automaticamente – pensato che alludesse al passato mitico delle origini, mentre si è poi capito che nella logica del racconto (che riguarda le difficoltà di capirsi tra due regni, quello sumerico di Uruk e quello iranico di Aratta, diversi e lontani) la visione deve riferirsi al futuro. Il testo dice:

 

In quel giorno i paesi di Subartu e di Khamazi, le cui lingue erano diverse da quella

di Sumer, paese di grande cultura e nobiltà, e anche Akkad, paese distinto, e anche i (nomadi) Martu che vivono in aperta campagna, e (insomma) tutto il mondo abitato parleranno al dio Enlil in una sola lingua. In quel giorno tutti quanti i signori, i nobili, i re, il dio Enki, signore che procura abbondanza, il cui discorso è giusto, che è il più intelligente, che è esperto di tutti i paesi e guida tutti gli dèi, applicando la sua intelligenza, il signore di Eridu cambierà nelle loro bocche tutte le lingue esistenti. La lingua di tutta l’umanità diventerà una.”

 

Ma veniamo alle colonne laterali del nostro immaginario manuale di storia, e qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. E’ immediatamente evidente come quasi tutte le allusioni o le elaborazioni letterarie o artistiche si basino sul mito biblico, in misura minore ma pur sempre consistente su echeggiamenti classici (da Semiramide a Sardanapalo), e quasi nessuna tenga presente le risultanze delle scoperte archeologiche ed epigrafiche che hanno rivoluzionato la nostra conoscenza di Babilonia e dell’antica Mesopotamia in genere, che hanno svelato quella che è stata definita “la prima metà della storia”. I miti – si sa – sono persistenti, mentre le analisi storiche sono assai meno popolari. Mi limiterò qui ad alcuni esempi che mi pare aiutino a colmare lo iato tra mito e storia, e tra tradizione e scoperte.

Parto da una frase di Kafka, che non è che un frammento, è come un lampo istantaneo ma gravido di significato (ha anche fornito l’ispirazione per una canzone). Annota Kafka, siamo nel 1922: “Wir graben den Schacht von Babel”, cioè “noi scaviamo il pozzo di Babele”. Vien subito da pensare che la frase voglia essere un capovolgimento del versetto biblico che dice “Orsù, costruiamo una città e una torre la cui sommità raggiunga il cielo!” L’opposizione tra torre e pozzo appare evidente, e l’ispirazione biblica della frase di Kafka lo è altrettanto, ed è riconosciuta da tutti i commentatori. Ma il rapporto tra le due frasi è meno semplice. Il passo biblico è un’esortazione (“Orsù, costruiamo!”) mentre il passo di Kafka è una narrazione o constatazione “Noi scaviamo, noi stiamo scavando, il pozzo di Babele”. Il frammento subito precedente, di poco più lungo, contrappone l’atto di “costruire” e quello di “scavare”: “Cosa costruisci? Voglio scavare un passaggio (una galleria).” (E tra parentesi sembra aver influenzato la traduzione italiana che sbadatamente dice “costruiamo il pozzo di Babele”!)

Occorre ricordare che Babilonia era stata scavata tra il 1899 e il 1917 dalla missione berlinese diretta da Robert Koldewey, lo scavo era stato interrotto dalla prima guerra mondiale, con l’occupazione inglese dell’Iraq. E occorre forse aggiungere che negli anni 1912-1917, proprio mentre Koldewey scavava Babilonia, Kafka era stato fidanzato con la berlinese Felice, aveva fatto alcuni viaggi a Berlino, e può aver ascoltato (direttamente o indirettamente) o conferenze o letto resoconti degli archeologi berlinesi sullo scavo di Babilonia, che nel 1920 era ormai interrotto ma i cui materiali si iniziò a studiare non appena la tremenda crisi del dopoguerra tedesco cominciò ad alleviarsi.

Occorre infine ricordare che gli scavi di Robert Koldewey a Babilonia e quelli di Walter Andrae ad Assur si erano caratterizzati per importanti innovazioni nel metodo di scavo, passando dallo scavo ottocentesco mediante pozzi verticali e tunnel orizzontali, inteso a recuperare oggetti di valore e d’interesse museale, allo scavo novecentesco, stratigrafico e su ampie esposizioni, inteso a recuperare l’architettura dei complessi monumentali (Koldewey e Andrae erano architetti). E però anche a Babilonia si scavò talvolta col vecchio metodo (pozzi e tunnel, Schacht ha entrambi i significati), in particolare per seguire il lungo percorso delle mura. Ed è spesso riprodotta una sezione di scavo (eseguita nel 1900), che non è propriamente un pozzo ma dà benissimo l’impressione di uno scavo in profondità. Forse Kafka ha sentito o letto una presentazione dello scavo in cui si citavano quei pozzi e questo scavo profondo? Non possiamo dirlo, ma sarebbe un innesco plausibile, cui nella mente di Kafka si agganciò subito il versetto biblico (e infatti Kafka dice biblicamente “Babel” mentre gli archeologi dicevano classicamente “Babylon”) e l’ovvia contrapposizione tra scavare un pozzo ed erigere una torre. Sarebbe un caso abbastanza raro in cui la scoperta archeologica interagisce con la tradizione biblica nella mente di un autore.

Kafka aveva già meditato sulla Torre di Babele, e ne aveva scritto un paio di volte, sempre in quegli anni. Un aforisma del 1918 dice “Se fosse stato possibile erigere la torre di Babele senza scavarla, sarebbe stato consentito” – e non sembra avere altra ispirazione che il mito biblico. Invece un frammento del 1920 (edito anche da Max Brod come “Lo stemma cittadino”) è assai più corposo che non il lampo fugace da cui siamo partiti. Riguarda i tempi interminabili della costruzione della torre, e semmai si rifà alla tradizione esegetica giudaica che anche favoleggiò sui tempi interminabili della costruzione. Però mentre la tradizione giudaica immagina un lavoro frenetico e purtuttavia interminabile, invece Kafka propone che ogni generazione, giudicando insoddisfacente il lavoro compiuto dalla generazione precedente, la abbattesse e ricominciasse da capo, dando così l’immagine di un lavoro interminabile perché continuamente interrotto e ricominciato da zero. Chissà se Kafka aveva mai sentito leggere certe iscrizioni di fondazione assire (alcune trovate negli scavi di Walter Andrae ad Assur) che percorrono la storia millenaria di certi templi mesopotamici, di continuo crollati e riedificati da capo? Ne cito ad esempio una di Esarhaddon (che era stata edita sin dal 1915), con la storia di un tempio di Assur che inizia col semi-leggendario Ushpia in pieno terzo millennio per arrivare fino ad Esarhaddon stesso, nel settimo secolo:

 

Il tempio vecchio di Assur, che Ushpia mio antenato, sacerdote di Assur, aveva inizialmente costruito, era caduto in rovina, e Erishum figlio di Ilushuma, mio antenato, sacerdote di Assur, lo ricostruì. Dopo 126 anni cadde di nuovo in rovina, e Shamshi-Adad figlio di Ila-kabkabu, mio antenato, sacerdote di Assur, lo ricostruì. Dopo 434 anni il tempio venne distrutto da un incendio, e Salmanassar figlio di Adad-nirari, mio antenato, sacerdote di Assur, lo ricostruì. Dopo altri 580 anni la cella interna, residenza di Assur mio signore, (e anche) le cappelle di Kubu, di Dibar, e di Ea, caddero in rovina per vecchiezza e antichità … Io Esarhaddon ecc. ecc.”

 

Forse l’echeggiamento è del tutto fortuito, o magari no. Così pure la celeberrima “Biblioteca di Babele” di Borges, che contiene un numero infinito di volumi con tutte le possibili combinazioni dei 25 segni grafici utilizzati, comprese ovviamente le combinazioni che per puro caso (o meglio per necessità statistica) hanno un senso in una delle lingue esistenti, ebbene perché si chiama “di Babele”? Certo, direi, perché il nome Babele, implicitamente collegato alla Torre, comporta l’accezione di infinito disordine, di caos cosmico. E però, volete che l’enciclopedico Borges non avesse letto che nelle antiche città mesopotamiche (Babilonia in testa) c’erano davvero biblioteche, immense per l’epoca, nelle quali gli antichi re e i loro scribi cercavano di raccogliere tutte le opere esistenti? Caso emblematico ne fu la biblioteca di Assurbanipal a Ninive, di cui qui riporto qui una delle formulazioni del colofone apposto alla fine delle opere letterarie babilonesi che gli scribi assiri avevano raccolto e ricopiato:

 

Assurbanipal, re grande, re forte, re della totalità, re d’Assiria, figlio di Esarhaddon re d’Assiria, nipote di Sennacherib re d’Assiria. Secondo il testo (letteralmente “la bocca”) delle tavolette d’argilla e di quelle (cerate su) legno”, (dagli) esemplari del paese di Assiria e del paese di Sumer e Akkad, io ho scritto, controllato e collazionato questa tavoletta nella raccolta degli esperti, e l’ho collocata dentro il mio palazzo per la mia regale consultazione.”

 

La biblioteca di Assurbanipal non intendeva certo raccogliere tutte le possibili combinazioni di segni e parole, ma voleva raccogliere tutti i testi letterari e sapienziali e scolastici esistenti nella millenaria tradizione assiro-babilonese, comprese le colossali serie di presagi astronomici, epatoscopici, e ambientali, con centinaia di tavolette ciascuna. E lo faceva nell’ambito dell’ovvio progetto imperiale di conquistare tutto l’universo mondo e di concentrarlo, mediante campioni rappresentativi, al centro del mondo, nel palazzo reale dell’imperatore.

Ma le scoperte archeologiche, oltre a recuperare testi storici di enorme interesse, e biblioteche intere, avevano recuperato anche e soprattutto la forma e la dimensione reale degli antichi edifici templari, di cui le torri del tipo ziggurat erano solo un tipo particolare. Così a Babilonia Koldewey aveva rimesso in luce i resti della grande torre templare Etemenanki, il cui nome (che significa “tempio che è fondamento di cielo e terra”) ho già detto come evochi un desiderio di incontro col mondo divino e non già una presuntuosa competizione. La torre templare al centro di Babilonia, è la vera, storica, “Torre di Babele”, e il suo recupero archeologico ha messo fine, o diciamo meglio avrebbe dovuto metter fine, alla multisecolare ricerca di dove mai fosse situata la torre. Ma la storia di questa ricerca consente spunti interessanti, ed altrettanto interessanti sono le considerazioni relative al rapporto che si stabilì tra riscoperta e convincimenti tradizionali.

All’inizio del mio libro “Immaginare Babele” ho citato la leggenda giudaica secondo la quale è impossibile rintracciare la torre perché il suo sito ha una particolarità: chi vi passa poi dimentica tutto quello che ha visto. Così, nessuno potrà mai raccontare dove essa si trova. E in effetti i viaggiatori di etnia e fede ebraica del medioevo – a cominciare da Beniamino di Tudela e Petachia di Ratisbona, siamo nella seconda metà del XII secolo – pur identificando tutte le località toccate, chiamandole coi loro nomi biblici, però non localizzano mai la Torre di Babele. Conoscono i ruderi di Ninive (e chiamano “Nuova Ninive” Mossul, di fronte ad essa sull’altra riva del Tigri) e conoscono i ruderi di Babilonia (e chiamano Baghdad “Nuova Babilonia”), e vi localizzano le leggende di Giona e di Daniele e le storie dei re assiri e babilonesi e altri episodi biblici. Ma non cercano mai la Torre. Poi però i viaggiatori europei, soprattutto nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento, la cercarono davvero, anzi direi che si spinsero ad est dell’Eufrate proprio per il desiderio di identificare la mitica Torre. Tra le tante rovine informi (o piuttosto tra i tanti mucchi di macerie di mattone dissolto), tra i tanti tell (tra parentesi: il termine arabo per le colline artificiali di antichi insediamenti stratificati deriva dal termine babilonese tillu “mucchio di rovine”) trovarono due plausibili candidati per la Torre, i resti delle ziggurat di ‘Aqar Quf (l’antica Dur-Kurigalzu) e di Birs Nimrud (l’antica Borsippa), e le preferenze si appuntarono generalmente sulla seconda, assai più vicina a Babilonia.

Ma a questo punto occorre dire qualcosa sulla forma della Torre: tonda o quadrata? Il testo biblico non lo dice, e la fantasia può sfrenarsi liberamente. Le tante raffigurazioni medievali preferiscono la forma quadrata, semplicemente perché sono abituati alle loro torri, di norma quadrate. E poi col Rinascimento (ad iniziare soprattutto dalla traduzione latina di Erodoto, pubblicata da Lorenzo Valla nel 1474) la forma quadrata ed anche la struttura a sette gradoni fu confermata senza ombra di dubbio dai testi della tradizione classica, da Erodoto appunto a Diodoro, le cui descrizioni si basavano sugli antichi monumenti babilonesi, alcuni dei quali (a differenza di quelli assiri) erano ancora in piedi in piena età ellenistica ed oltre.

E però il progredire della conoscenza del Vicino Oriente islamico contribuì ad imporre parallelamente anche il modello della torre circolare, rappresentata al meglio dalla torre della moschea di Samarra, ma ancor più accessibile in quella della moschea cairota di Ibn Tulun (Fig. 24b). Così le più numerose, e più famose, e più artisticamente elaborate immagini della Torre la raffigurano rotonda: si pensi alle celeberrime torri di Pieter Bruegel (1565) e di Ahtanasius Kircher (1679). Persino di fronte alle macerie piuttosto informi della ziggurat di Birs Nimrud, i viaggiatori sette-ottocenteschi (prima dell’inizio degli scavi assiri) o la videro come tondeggiante, mentre in seguito (a scavi già ben avviati) la raffigurarono come perfettamente quadrata, selezionandone solo la parte più alta.

Ovviamente la riscoperta archeologica impose la forma quadrata, anche se tra gli artisti privi di conoscenze specifiche continuò a godere di grande fascino la forma rotonda, ancora in anni molto recenti, a dimostrare come la forza della tradizione superi l’evidenza delle scoperte. Ma altrettanto significativa è l’influenza della tradizione sugli stessi archeologi autori delle scoperte. Ovviamente a Babilonia l’Etemenanki era ridotta allo stato di rudere piuttosto informe, e se lo scavo di Koldewey riuscì molto bene a recuperarne la pianta, invece nella ricostruzione dell’alzato anche l’immaginazione dovette giocare un ruolo, accanto alle misurazioni degli autori classici. Il nome stesso di “Torre” credo abbia contribuito a potenziare lo sviluppo verticale: tutte le proposte alternative avanzate da Koldewey e collaboratori sono accomunate dallo sforzo di fare della struttura piramidale una torre. Anche per la ziggurat di Ur, assai meglio conservata e dunque più sicuramente ricostruibile, le presentazioni generali privilegiano sempre una visione prospettica dal basso in alto che ovviamente conferisce un senso di sviluppo in altezza.

L’influenza della tradizione è ancor più evidente nella questione della pianta della città. Prima della riscoperta, le descrizioni degli autori classici vennero inevitabilmente assunte a modello, attribuendo all’antica Babilonia una assoluta regolarità ippodamica (anzi direi iper-ippodamica). Tra le più celebri ricordo la ricostruzione di Athanasius Kircher (1679) e quella bellissima di Johann Fischer von Erlach (del 1721) coi giardini pensili in versione barocca. Ma anche dopo la riscoperta archeologica si continuarono a produrre vedute ricostruttive generali (Fig. 33 e 34) la cui regolarità molto doveva alla tradizione classica, rispetto alla realtà archeologica che mostrava una rete viaria di regolarità molto approssimativa, e una pianta generale geometrica sì ma non propriamente quadrata. Del resto, anche nei dettagli ricostruttivi di singoli edifici, è stato notato come gli architetti tedeschi (Andrae in particolare) talvolta adottassero nelle ricostruzioni tridimensionali una regolarità maggiore di quella risultante dal loro stesso scavo e dalle loro stesse piante.

Gli autori classici davano anche delle dimensioni di Babilonia delle stime esagerate: per Erodoto è un quadrato di 120 stadi per 120, per la tradizione di Ctesia accolta da Diodoro è un rettangolo di 150 stadi per 90. E lo stesso dicasi per la capitale assira Ninive. Quando messe in pianta, queste dimensioni vennero a configurare perimetri murari più regionali che non urbani, e prese così corpo la teoria della “Grande Ninive” e della “Grande Babilonia”. Nel caso di Ninive, le mura di cinta erano ben visibili, ed erano state messe in pianta in maniera del tutto soddisfacente già intorno al 1815, dal residente britannico Claudius Rich e da Felix Jones: dimensione e forma della città corrispondono bene a quelle delle piante attuali. Eppure la “Grande Ninive” descritta dai classici andava a ricoprire l’intero territorio assiro, includendo diverse altre città. Lo stesso dicasi per Babilonia, le cui mura vennero ben presto identificate sul terreno, ma la “Grande Babilonia” andava anch’essa a ricoprire l’intera regione, includendo diverse altre città, a cominciare da Borsippa in modo da includere la presunta Torre di Babele dei viaggiatori. La teoria venne ben presto accantonata. E però se ne trova ancora qualche strascico tra i non specialisti (ad esempio urbanisti come Le Corbusier nel 1925 e W. Schneider nel 1960). Ma la vecchia teoria ritorna alla mente persino degli archeologi, come nel caso di una linea di fortificazioni individuata recentemente assai più a nord di Babilonia, probabilmente da connettere col cosiddetto “muro di Media” (anch’esso citato dai classici) ma che nulla ha a che vedere con la dimensione di Babilonia.

Quale considerazione ricavare da questa sintetica carrellata della fortuna di Babilonia e della sua Torre nel corso dei secoli e fino ad oggi? Credo soprattutto una: e cioè che i racconti della tradizione classica e soprattutto biblica, e i più avvincenti tra gli antichi miti, mantengono nel comune sentire un peso assai maggiore di scoperte archeologiche ed epigrafiche pur di grande risalto, che permettono di ricostruire la storia in maniera fondata. Fantasia e bellezza, evocative di valori, prevalgono sempre – e per fortuna! – sulla banale conoscenza dei fatti reali. Si continua a sognare anche dopo il risveglio.