Molti da bambini sognano di poter volare: questo sicuramente era il desiderio di Lorenzo Dutto, che fin dall’infanzia, vuole essere pilota d’elicotteri, ma a differenza di altri suoi coetanei viene preso sul serio dai genitori, che cercano così di agevolare la buona riuscita della sua impresa; ripongono molta fiducia nel figlio che li ricambia ampiamente portando avanti con serietà gli studi. Lorenzo frequenta così con profitto l’Istituto Tecnico Aeronautico De Pinedo di Roma. All’epoca, parliamo degli anni ’90, in Italia erano solo tre gli istituti che si occupavano di formare la categoria dei piloti, e i genitori di Lorenzo scelgono addirittura di trasferirsi a Roma, la famiglia Dutto è di Rovereto, per assisterlo ed incoraggiarlo. Dopo il diploma di perito aeronautico, per Lorenzo lo step successivo è il brevetto commerciale, quello che in sostanza concede ad un pilota la possibilità di essere stipendiato: comincia così ad accarezzare l’idea di trasferirsi negli States, su esempio di un istruttore del corso che gli aveva parlato dell’esperienza con molto entusiasmo. Presenta un preventivo di spese che la famiglia dovrà sostenere per un anno, concedendo così l’ opportunità a Lorenzo di conseguire il brevetto a Fresno, nell’entroterra californiano, una zona poco nota, ma che vanta un’ottima scuola di volo. Ottenuto il brevetto rientra in Italia, comincia quindi la trafila per il processo di conversione delle certificazioni da americane ad italiane: la lenta burocrazia italiana impiega ben 4 anni per riconoscergli la regolarizzazione dei brevetti, dopo di che comincia a lavorare come istruttore di volo, occupandosi della parte teorica all’Aeroporto dell’Urbe di Roma. Nel 2005 viene assunto da un imprenditore romano che aveva la passione per gli elicotteri, ne possedeva diversi e li utilizzava per spostarsi in lungo e in largo per l’Italia.
Come valuti questa esperienza lavorativa?
Ambivalente. Nel trasporto privato di persone mi veniva spesso chiesto di andare in luoghi inusuali, non solo da aeroporto ad aeroporto: la varietà dei paesaggi mi deliziava lo sguardo e la peculiarità delle situazioni rendeva il lavoro più interessante. In azienda inoltre godevo di un trattamento privilegiato legato alla particolarità della professione, eppure non percepivo uno stipendio in linea con l’impiego ricoperto: quello che mi mancava era la giusta retribuzione in base all’alta professionalità richiesta e alla pericolosità effettiva del lavoro… senza tralasciare il fatto che dovevo rientrare necessariamente delle spese sostenute per la formazione.
Il mio datore di lavoro si era rifiutato di assumere me e i miei colleghi con il Contratto Nazionale Piloti, facendomi così risultare un semplice dipendente con diverso contratto di impiego. Operando in questo modo non potevo contribuire al Fondo Volo, che è il fondo pensionistico dei piloti, e venivo escluso dalla categoria di professione: a conti fatti stavo guadagnando una miseria! Nel 2007 un investimento da parte del mio capo mi fece credere che la situazione sarebbe cambiata: mi veniva pagata l’abilitazione al Volo Strumentale, un tipo di volo per cui si utilizzano solo agli strumenti di bordo senza riferimenti visivi esterni. Questa è un’abilitazione necessaria per poter lavorare anche in altri settori, come l’elisoccorso, la ricerca e salvataggio, e il trasporto del personale sulle piattaforme petrolifere. Ottenuta la licenza, ritornai dal mio capo e provai a rilanciare il mio contratto. Al suo ennesimo rifiuto, che a quel punto proprio non comprendevo più, dati i costi sostenuti, maturai l’idea di mollare. Inviai 107 curricula, in ogni parte del mondo alle aziende più disparate. Ho ricevuto 9 risposte in tutto, una delle quali da parte di un’azienda canadese, la CHC, che opera nell’ambito del gas e del petrolio e ha basi sparse in tutto il mondo. Sono stato invitato per un colloquio ad Aberdeen, nel nord-est della Scozia. Ho preparato le valigie e senza pensarci due volte sono partito, ho ottenuto il posto e mi sono trasferito.
Cosa fai esattamente adesso in azienda?
Piloto un elicottero di costruzione francese, categoria medio-pesante, chiamato Superpuma e trasporto 19 passeggeri dalla base alle piattaforme petrolifere. Ho esercitato la mia professione ad Aberdeen in Scozia, fino allo scorso anno. Poi sono passato al ramo extraeuropeo e attualmente sono di base a Miri, in Malesia… sono passato dal Mare del Nord al Borneo!
Così è cominciata la tua nuova vita all’estero. Vuoi parlarci delle differenze riscontrate?
La differenza lampante è il trattamento aziendale, intendo il rispetto che il datore di lavoro ripone nella tua figura di professionista e l’adesione alle normative che, almeno per il Regno Unito, è quasi “religiosa” in questo settore. Probabilmente è questa rigidità che permette a certi paesi di progredire dal punto di vista socio-economico. Personalmente in questo momento sono un lavoratore felice e ho ottimi rapporti con la mia dirigenza; mi capita anche adesso di discutere, ma fondamentalmente di dettagli. Sento che i miei diritti sono tutelati, nella stessa maniera in cui vengono pretesi i miei doveri. Si entra a far parte così di un circolo virtuoso: se l’azienda mi tratta con rispetto, io stesso mi comporterò con rispetto verso l’azienda. A quel punto si è ben disposti a fare anche qualcosa in più del “minimo sindacale” perché rientra nello schema dell’agevolazione reciproca.
Interessante questo concetto. Spesso nel proprio tempo libero può capitare di esser richiamati dall’azienda per coprire piccole grandi emergenze. Il lavoratore in Italia accetta con riluttanza, spinto sostanzialmente dal ricatto del rinnovo contrattuale. Non si sente “figlio” dell’azienda, forse perché all’interno non gli vengono riconosciuti gli sforzi in più, perché gli straordinari non vengono pagati e gli stipendi sono accreditati in ritardo.
Ecco, questo difficilmente può accadere in CHC, dove ogni minuto di straordinario viene calcolato, dove non si lavora se non si lavora a norma, e questo a maggior ragione per le richieste di extra.
Una realtà che sembra essere un miraggio da noi… ci sarà però una contropartita, cosa ti manca dell’Italia?
Poco a dire il vero. Sento la mancanza di parenti e amici, ma ne avrei avuta anche se avessi scelto di lavorare in un’altra città italiana differente da casa. C’è da dire che attualmente non ho un legame sentimentale, altrimenti sarebbe stato più complicato gestire la distanza.
Quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi dello scegliere di esercitare questa professione all’estero?
Lo svantaggio è vivere sei mesi all’anno in una stanza d’albergo, e questo non aiuta la stabilità, soprattutto affettiva: sulla mia pelle ho sperimentato lo sforzo di mantenere vivi i rapporti con le persone in Italia, mentre mi risulta difficile pensare ad una famiglia mia. Le zone dove si sviluppa l’industria del gas e del petrolio sono zone pericolose o impervie, dove la famiglia fondamentalmente non ce la vorresti portare: la Nigeria è un esempio, ma anche il Kazakistan, l’Azerbaijan, le isole Falkland. La mia, in Scozia e Malesia, è una realtà privilegiata che non sempre viene concessa.
Cosa si dice dell’Italia all’estero?
In generale c’è una visione “double-face” dell’Italia: fuori si continua ad apprezzare la ricchezza italiana in termini di cultura, da quella della buona tavola a quella prettamente storica ed artistica. Quando racconto ad un amico straniero che per raggiungere un locale a Roma sono passato accanto al Colosseo, vengo guardato con un pizzico d’invidia. All’estero si continua a percepire straordinario quello che per noi è sempre stato quotidiano. D’altra parte c’è tanto dileggio dei nostri difetti, tanti stereotipi duri a morire. Ma soprattutto, la nostra credibilità è stata fortemente indebolita dalla vicende politiche che hanno caratterizzato il nostro Paese negli ultimi vent’anni. Nulla sfugge all’occhio esterno, anche se vorremmo fosse così. I nostri personaggi politici e le loro tristi vicende sono note a tutti quanti, e quando non se ne parla per scherno c’è un senso di sgomento generale; persino in Malesia sono al corrente degli scandali che continuano a macchiare il nostro Parlamento e le nostre Istituzioni.
Estendendo il paragone, questo può in qualche modo compromettere la fiducia nel lavoratore italiano? In che modo avviene l’integrazione lavorativa e sociale?
In Gran Bretagna in concetto di fiducia è molto relativo: te la devi guadagnare. La fama che precede mediamente l’italiano è quella che proverà ad ottenere le cose facilmente, con mezzucci, o con le scorciatoie delle conoscenze. Io ho impiegato anni a dimostrare che non ero quel tipo di Italiano. Per quel che riguarda l’integrazione devo dire è stata totale. La conoscenza della lingua è stata un punto a mio favore senza dubbio. Non mi sono mai sentito escluso dall’ambiente. Non mi sono mai sentito dare del “mafioso” né ho sentito altri italiani esser chiamati così. Anzi, devo dire che mi è stato chiesto più volte di provare a spiegare il termine “mafia” all’estero, soprattutto in relazione al film di successo tratto dall’opera di Saviano, Gomorra. Non sono riuscito a tradurre e trasmettere il senso di invischiamento, l’illegalità che si mescola alla legalità, dove non si riesce più a distinguere l’una dall’altra: questo è un concetto molto italiano, nei paesi anglosassoni ciò che è buono è sempre buono, e ciò che è cattivo è sempre cattivo.
Ora la domanda è di rigore: ritorneresti in Italia?
Possibilmente no. Percepisco pochissime prospettive di vita serena in Italia, cosa di cui ho pienamente goduto in Gran Bretagna. Spesso mi confronto con i colleghi che hanno scelto di rimanere e sento di aver fatto la cosa giusta, sono un professionista soddisfatto. La situazione politico-economica italiana è sempre più critica, le aspettative lavorative meno allettanti di quelle offerte altrove. Tornerei solo a fronte di un’emergenza familiare, ma personalmente la mia scelta è stata compiuta, e ne sono assolutamente convinto.
di: Giorgia Sbuelz