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Imprenditori creativi: l'arte del lavoro che funziona. Incontro con l'imprenditore Giorgio Maggi

12 Febbraio 2013 - VI PROPONGO

Intervista di: Fabiana Carucci

 

 

 

Nel XXI secolo si sente la necessità di creare un mondo del lavoro più a misura d’uomo che di macchina. Ecco che motivare il lavoratore, farlo sentire davvero parte dell’azienda ed in piena sintonia ed alleanza con questa diviene fondamentale.

A fronte di un’organizzazione lavorativa dove più che al risultato concreto si guarda ancora all’apparenza e ad orari che mal si addicono ad una produzione intellettuale-umano-creativa, c’è qualche imprenditore che sta guardando avanti e segue uno standard diverso. Non è il solito :”si senta come parte di una grande famiglia”, che in realtà si traduce in un: “sia pienamente disponibile 24 ore su 24 e ritenga il lavoro la cosa più importante della sua vita ed il resto in secondo piano”. Questo nuovo modo di lavorare rispetta la persona in quanto tale e davvero la fa sentire alleata del suo lavoro e della sua azienda.

In accordo con la necessità di inserire l’attività lavorativa all’interno della vita della persona, senza che questo ne diventi schiavo, l’organizzazione cambia; le persone riscoprono così il piacere del tempo vissuto, degli affetti coltivati e delle necessità personali soddisfatte. Il lavoro diviene pertanto una parte importante della vita ma anche fonte di grande soddisfazione e realizzazione personale, grazie ad alcuni imprenditori che si stanno muovendo in modo diverso ed innovativo.

Per i lavoratori che debbono dar vita a progetti ed idee, più che il legame con un orario ed un luogo fisso, conta dunque anche la motivazione personale che aiuta lo sviluppo e l’elaborazione creativa. Non necessariamente legati quindi, questi nuovi “impiegati”, sono liberi di gestirsi l’orario di lavoro come meglio credono, con responsabilità certo ma anche con la libertà di incastrare l’attività produttiva con le singole e diverse necessità di vita e personali.

Quello che conta non è timbrare un cartellino e magari passare ore a guardare un pc svogliati ma è il risultato e che sia ottimo, riconosciuto sia moralmente che economicamente e che soddisfi datore di lavoro e lavoratore. L’esperimento dei “demasiani”, così chiameremo questi imprenditori che sono in accordo con alcune teorie enunciate dal famoso sociologo italiano Domenico De Masi, sta riuscendo ed oggi ne portiamo la testimonianza incontrando Giorgio Maggi, un imprenditore italiano di credo “demasiano” che con lungimiranza ed una buona dose di coraggio, unita ad intuizione, da tempo gestisce in questo nuovo modo la sua azienda. Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare che….

 

Buongiorno Giorgio. Come altri giovani imprenditori italiani, hai voluto organizzare ed intendere la tua attività in modo diverso dai canoni classici, secondo un’ottica al passo con la forte espansione della creatività e del lavoro intellettuale. Vuoi raccontarci della tua idea e di come hai organizzato la tua attività?

L’idea balenava da tempo nella mia mente. Era grezza però, poco definita. Tutto nasceva da una sensazione, che col tempo è diventata una consapevolezza sempre più chiara, che il mondo del lavoro che avevo conosciuto non mi piaceva. Era ripetitivo e noioso. Privo di energie stimolanti. Percepivo, in generale, una cultura del lavoro impaurita, scarsa di prospettive e di tensione creativa. Ripiegata su se stessa a metabolizzare la “botta”della crisi. Ormai regola e non più eccezione. Parte integrante e stabile nel mondo del lavoro. Parola chiave scolpita nel nostro cervello. Ho sempre pensato che nel nostro Paese bisognava ripensare l’idea generale di welfare. Non più a carattere assistenzialistico. Ma orientato alla promozione sociale e alla valorizzazione dei talenti. È l’impianto complessivo che va rivisitato. Non regge più. Non è sufficiente approvare le cosiddette “riforme” flessibili in entrata/uscita per risolvere il problema della crisi occupazionale. Non è un problema (solo) di costi del lavoro e di cuneo fiscale. Neanche di tassi di produttività dell’industria. E’ un problema culturale, di mentalità. Che si risolve con soluzioni sistemiche. Riformulando il concetto stesso di lavoro nel XXI secolo.  Abbracciando, non acriticamente, nuovi paradigmi votati ai settori di punta dell’economia del 3° millennio: bellezza, arte, cultura, scienza, educazione, tecnologia, design, etc.

 Ero alla ricerca di un qualcosa che mi permettesse di sfogare i miei talenti ed essere me stesso. Aiutando anche gli altri nella ricerca della propria via. Quella del talento. Per talenti intendo le attitudini naturali che ognuno di noi possiede in quanto dispositivi biologici di adattamento all’ambiente. Attitudini che ci orientano nelle nostre scelte e azioni quotidiane. Anche se non ce ne accorgiamo. Da queste considerazioni e dalle esperienze maturate nel campo delle HR nacque Italian Way – la via del talento. Una società che intendeva offrire servizi di orientamento al lavoro supportata dalle nuove tecnologie digitali e da un metodo scientifico innovativo. Rivolta a giovani e meno giovani. L’organizzazione di un’attività post-industriale di questo genere non poteva che strutturarsi secondo un modello diverso da quello di stampo taylor-fordista. Scandito da tempi e costi standard. Pensai di applicare il modello della community. Cioè un’azienda che fosse concepita come una comunità di pratica. Gli addetti ai lavori si ricorderanno il modello inventato da Etienne Wenger. Non formata da organigrammi e mansionari. Ma da un’aggregazione di persone unite da visione, conoscenze e senso di appartenenza. Con obiettivi economici condivisi. La gerarchia stabilita in base all’expertise e all’autorevolezza delle qualità umane. Piuttosto che dettata da procedure standardizzate.  Ovviamente, il focus principale era ed è la valorizzazione del talento individuale come conditio sine qua non.

 Facendo un paragone con un’organizzazione di stampo tayloristico o industriale, con un’attività legata ad orari rigidi e standard produttivi stabili e meccanici, pensi che effettivamente questo nuovo modo più libero e legato ad obiettivi e valorizzazione delle capacità lavorative del singolo e della sua motivazione possano essere vincenti e più adatti ai tempi?

Penso convintamente che sia adatta ai tempi che viviamo. Penso, anche, che siamo obbligati a seguirla per uscire fuori dalle acque stagnanti in cui ci troviamo. In un’economia globalizzata e sempre più “immateriale”, il paradigma post-industriale è un approccio vincente e, nel medio-lungo termine, molto remunerativo. A patto che tutto il sistema vada in quella direzione. La rivoluzione nel mondo del lavoro in Italia e in Europa è possibile se tutti gli attori coinvolti convergono verso un’idea di sviluppo sostenibile basato sulla creatività e sul talento dell’individuo. Sul cosiddetto capitale umano. Non a caso quest’epoca viene soprannominata da alcuni influenti sociologi come nuovo rinascimento postmoderno.  È come se la storia si ripetesse. L’uomo e il suo talento sono tornati al centro dell’economia. In Italia è difficilissimo applicare questo paradigma all’organizzazione produttiva del lavoro. Per le cause che tutti conosciamo, ormai, da anni. C’è un sistema ancora troppo ancorato al principio delle relazioni industriali anni ’60 in cui imprese e lavoratori si trovano contrapposti. E lo Stato non è più in grado di assicurare la mediazione tra le parti
civili. La cultura popolare del lavoro, d’altro canto, è condizionata da questo schema rigido e logoro. Ha paura di cambiare e, in molti casi, addirittura di pensare che un altro modello è possibile. Sono fiducioso per il futuro. In Rete c’è molto fermento e scambio di esperienze e vedo nascere nuovi soggetti imprenditoriali capaci di incarnare il nuovo volto del lavoro.

Che consigli daresti ad un giovane che vuole intraprendere oggi un’attività imprenditoriale?

A parte i soliti consigli di rito, ad un giovane direi di investire sulla conoscenza e sulla curiosità. Di se stesso e del contesto che lo circonda. Non parlo solo di conoscenze universitarie o di titoli professionali. Parlo soprattutto della propensione ad approfondire le innumerevoli sfaccettature del mondo in cui viviamo. Della curiosità che esprime e coltiva. Dell’apertura verso gli altri. Un buon imprenditore, al di là dei prodotti/servizi che offre, lo si nota dal fiuto. Dall’intuizione. Dalle idee che provengono da un rapporto vivo e profondo con il mondo circostante. L’imprenditore è immerso totalmente nella cultura in cui si trova. Non prescinde da essa. Solo così potrà ispirarsi e creare nuovi prodotti, nuovi trend, nuova occupazione e sviluppo economico. Le storie e le aziende di successo ci insegnano che l’imprenditore spesso è guidato più dalla propria visione che dal calcolo del ritorno sull’investimento. Che la segue con determinazione finché non riesce a tradurla in beni utili alla società. La capacità di generare visioni alternative la si apprende a livello informale confrontandosi e dialogando con tutti.

Come vedi la posizione italiana, a livello di capacità propositiva per superare questo momento storico difficile di cambiamento e passaggio epocale, rispetto all’avanzare dell’economia globale?

Povera Italia. Si è ridotta veramente male. La situazione è sotto gli occhi di tutti. Ne siamo anche perfettamente consapevoli ma non riusciamo a superare questa fase di empasse permanente. Sembra di vivere in una perenne transizione verso il cambiamento che non arriva mai. Nonostante tutto, penso che il popolo italiano sia il più adatto a vincere nell’economia globale. Perché possiede, nel suo bacino storico-culturale, tutti i principali asset che caratterizzano l’economia post-industriale. Abbiamo talenti e competenze per fronteggiare qualsiasi sfida globale a grandi livelli. Purtroppo, non abbiamo un sistema industriale organizzato in grado di farvi fronte. Siamo legati ancora, come dicevo prima, ad una concezione del lavoro arretrata, priva di creatività e con scarsa tensione ideale. In poche parole, siamo diventati pigri e ripetitivi. Con poca voglia di inventarci il futuro. Noi potremmo sfruttare l’immenso capitale sociale che abbiamo accumulato per creare nuovi modelli di organizzazione del lavoro network based. Siamo i più bravi a fare network. A modo nostro però. C’è bisogno di autonomia e decentramento territoriale. Maggiore attenzione alla persona. Così potremmo mettere in Rete i nostro talenti.

Nel corso d’opera, ritieni sia stata una scelta buona o, se potessi tornare indietro, organizzeresti il tutto in modo diverso?

Ritengo che sia stata una scelta molto buona, l’unica che mi sentivo di fare. Ovviamente ho commesso alcuni errori. Del resto è fisiologico. Se potessi tornare indietro, però, rifarei tutto quello che ho fatto. Migliorando alcuni aspetti che ho tralasciato. Ripeto però, se non cambiano le condizioni del contesto in cui operano le aziende, sarà molto difficile applicare questo modello organizzativo. Anche avendo tutta la visione e la fortuna di questo mondo a disposizione. Ci sono dei vincoli oggettivi, culturali e fiscali, che impediscono agli imprenditori innovatori di consolidare questo paradigma.