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TUMORE DELL’OVAIO, L’80% DEI CASI È DIAGNOSTICATO TROPPO TARDI – le nuove strategie di prevenzione

5 Marzo 2019 - SCIENZA RICERCA SALUTE

Di: Fabiana Carucci – Direttore editoriale www.italianbabylon.net

Ogni anno in Italia il tumore dell’ovaio colpisce 5.200 donne, per un totale del 3% delle neoplasie femminili. Questa è la 10° patologia tumorale più diffusa fra le italiane ed è tra le prime 5 cause di morte per cancro tra i 50 e i 69 anni. Purtroppo nell’’80% dei casi, ancora oggi,la diagnosi arriva tra il 3° ed il 4° stadio, ossia in fase molto avanzata.

Rispetto alle altre tipologie di forme tumorali, complice anche la mancanza di sintomatologia significativa come purtroppo di una fase di screening preventivo non ancora diffuso ed invece disponibile per i tumori dell’utero e della mammella, questa che è una patologia molto complessa ha una componente forte di matrice ereditaria, individuata la quale, grazie ad un test preventivo, si potrebbe davvero fare la differenza. Purtoppo però, complice anche un’informazione mal posta e spesso basata più sul pregiudizio che sulle evidenze scientifiche, il test non ha avuto ancora una sufficiente diffusione; ad aggravare il tutto la presenza a tutt’ora di notevoli ostacoli “nell’accesso ai programmi di prevenzione indirizzati ai familiari delle donne che risultano positive ai test genetici“.

Nella conferenza tenutasi oggi presso l’Auditorium del Ministero della Salute, Stefania Gori (Presidente nazionale AIOM e Direttore dipartimento oncologico, IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria-Negrar), introdotta da Fabrizio Nicolis (Presidente Fondazione AIOM), ha aperto la serie d’interventi per un piano completo sulla situazione attuale e sulle prospettive future. “Se il tumore è confinato all’ovaio – ha affermato la Gori – la sopravvivenza a 5 anni raggiunge il 90%, mentre scende al 15-20% negli stadi avanzati. Circa il 20% delle neoplasie ovariche è ereditario, cioè causato da specifiche mutazioni genetiche delle BRCA1 e BRCA2,  2 geni che producono proteine in grado di bloccare la proliferazione incontrollata di cellule tumorali. Queste proteine partecipano a meccanismi di riparo del DNA, garantendo l’integrità dell’intero patrimonio genetico”, combattendo tutta una serie di alterazioni genetiche, le quali favoriscono il rischio di cancro, con un fattore di trasmissione ereditaria che porta ad un notevole aumento di predisposizione allo sviluppo della malattia. E’ cruciale avere accesso all’informazione sulla possibilità di trasmissione genetica, poiché questo fa la differenza nell’impostazione delle linee di cura, oltre ad attivare una linea precisa di monitoraggio verso i familiari a rischio, al fine di prevenire la comparsa della patologia o, quantomeno, di individuarla in fasi meno avanzate di quanto avvenga ora. Nelle donne che ereditano la mutazione genetica BRCA1, la probabilità di contrarre il cancro alle ovaie aumenta del 44%, rispetto al resto della popolazione, con una percentuale che scende al 17% per la mutazione BRCA2, come rilevato dallo studio World Ovarian Cancer Coalition, che ha visto coinvolti 1.531 pazienti in 44 Paesi nel mondo.

L’informazione in materia nel nostro Paese, benché anche altrove non va molto meglio, è ancora troppo scarsa tanto che, prima di una diagnosi, ben il 56,5% delle donne colpite ha dichiarato di non conoscere questo tipo di neoplasia, ed il 65,2% non ha mai effettuato un test genetico atto ad individuare la presenza di rischio portata dalla trasmissione delle sopra citate mutazioni genetiche.

Il Presidente della Fondazione AIOM Fabrizio Nicolis ha evidenziato come, “conoscere lo stato mutazionale dei geni BRCA è sempre molto importante ed il test dovrebbe essere effettuato su tutte le pazienti (con le caratteristiche indicate nelle Raccomandazioni AIOM-SIGU-SIBioC-SIAPEC-IAP 2019) al momento della diagnosi. Le armi contro il tumore all’ovaio spaziano dalla chirurgia alla chemioterapia fino alle terapie mirate, in cui rientrano gli inibitori di PARP”. Sulle pazienti individuate a rischio si può decidere per una sorveglianza semestrale, finanche per il ricorso alla chirurgia con un’annessiectomia bilaterale, sulla scia del gesto eclatante compiuto da una notissima attrice internazionale (Angelina Jolie), il cui gesto di outing circa l’esser portatrice delle mutazioni genetiche BRCA ha dato per la prima volta voce ad una patologia per lo più ignorata e sconosciuta in tutto il mondo, fino ad allora.

Domenica Lorusso (ginecologa oncologa presso la Ginecologia Oncologica, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma) è intervenuta in merito alla questione dell’evoluzione delle terapie mediche, laddove da una parte sono in uso i farmaci antiangiogenici, con cui si blocca lo sviluppo dei vasi sanguigni che portano allo sviluppo della patologia, dall’altro gli inibitori di PARP, che agiscono sulle pazienti che presentano le mutazioni genetiche BRCA come su chi non le ha  invece sviluppate, portando in entrambi i casi notevoli benefici. Queste molecole sono ben tollerate e facilmente fruibili e portano ad un significativo aumento dell’intervallo nelle recidive e progressione della malattia. “Tuttavia – ha specificato la Lorusso – la questione centrale ed in grado di fare la differenza vera riguarda la prevenzione; una valida prevenzione, perchè ancora oggi abbiamo una quota di decessi altissima ed assolutamente distante dalle altre patologie tumorali. Molti passi sono stati fatti, soprattutto nella trasformazione da patologia acuta a cronica, andando così ad agire sull’indice di sopravvivenza, una sopravvivenza che si attesta purtoppo ancora solo all’8%, cifra nettamente distante dalle altre sopravvivenze tumorali. Fare una diagnosi in stadio troppo avanzato provoca si una remissione, ma non una guarigione, con una recidiva che tocca punte dell’80%. I nuovi farmaci stanno aiutando molto, ma la strada è lunga”.

In merito ai test BRCA, Valentina Sini (Divisione di Oncologia Medica Università “La Sapienza” di Roma e Unità di Oncologia Ospedale “Santo Spirito” di Roma) è scesa nel dettaglio, anche per presentare il quadro aggiornato. “Questi test riguardano i geni oncosoppressori – ha spiegato – dei sorveglianti importanti per il meccanismo di riparazione del DNA danneggiato trasmesso dai genitori ai figli, sia verso i figli maschi che per le femmine; infatti i figli di entrambi i sessi ereditano ugualmente la mutazione, al 50% delle possibilità. Questi ereditano non  la malattia ma la predisposizione allo sviluppo della neoplasia ovarica. Tuttavia il fattore ereditario non è l’unico dei fattori di rischio: tra questi hanno un ruolo importante anche le terapie ormonali a base di estrogeni e lo stile di vita contemporaneo molto compromesso sotto vari punti di vista, alimentare ma non solo.

Tra i fattori che vanno invece a ridurre l’incidenza di rischio, troviamo l’uso prolungato di terapie anticoncezionali orali, la multiparità, l’allattamento al seno e le gravidanze specie se multiple, le quali riducono la possibilità di sviluppo della patologia del 30%.

Quattro società scientifiche, AIOM (Asociazione Italiana di Oncologia Medica), SIGU (Società Italiana di Genetica Umana), SIBioC (Società Italiana di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica), e SIAPEC-IAP (Società Italiana di Anatomia Patologica e Citologia Diagniostica, hanno prodotto lavorando in concerto un documento: la “Raccomandazione per l’implementazione del test BRCA nelle pazienti con carcinoma ovarico e nei familiari a rischio neoplasia”, un’iniziativa volta ad abbattere i decessi per cancro ovarico.

Ornella Campanella (Presidente di aBRCAdaBRA Onlus), ad oggi unica associazione che si fa portatrice dei diritti delle persone portatrici di mutazioni genetiche BRCA, uomini e donne, sane e malate, è intervenuta concordando sulla centralità della prevenzione ed individuazione della propensione alla mutazione, prima dello sviluppo della patologia. “Abbiamo fatto un ottimo uso dei social, utilizzando la rete per dare il via ad una comunicazione globale che facesse capire alla persone colpite di non essere un caso raro ma parte di una comunità mondiale che al momento conta 1.300 utenti; in seconda battuta questo permette di eliminare i troppi pregiudizi ed i falsi miti che circondano questa patologia, combattendo un passaparola esistente che non riflette la verità e, anzi, sicuramente ostacola la lotta al cancro ovarico. Ora chi è portatore sano, come chi ha sviluppato la patologia, si sente meno solo grazie anche alla campagna d’informazioneIO SCELGO DI SAPERE”, in cui le diverse associazioni impegnate, i pazienti, gli esperti, si sono uniti per veicolare e diffondere un’informazione ad ampio raggio corretta ed implementare, ossia la PDTA che è il percorso di prevenzione e la messa in sicurezza delle persone ad alto rischio. Di grande aiuto sono i Quaderni AIOM e le collaborazioni scientifiche fra i vari protagonisti che operando in sinergia possono determinare il vero salto di qualità verso l’abbattimento della mortalità, della recidiva e la prevezione”.

Sui diversi approcci regionali verso la patologia si è espressa Nicoletta Cerana (Presidente ACTO Onlus, Alleanza Contro il Tumore Ovarico). “La nostra Onlus è nata 8 anni fa dalla volontà di Mariaflavia Villevieille Bideri sua fondatrice deceduta purtoppo per un tumore ovarico nel 2014. Ad oggi le varie associazioni presenti in varie zone d’Italia operano sotto un unico nome, pur a livello regionale, poiché persistono ancora diversità di approccio nelle varie regioni e la necessità è quella di una presenza forte sul territorio ed un abbattimento delle diversità esistente, le quali portano anche ad iniquità e disparità di trattamento inaccettabili. L’obiettivo è superare le diversità di approccio e cura verso un livello nazionale unificato  e proiettato verso l’alto. Questa situazione di disparità territoriale non è però solo esistente in Italia, bensì colpisce anche molti altri Paesi nel resto del mondo ove l’approccio alla prevenzione e la cura della patologia registra ancora un’azione a macchia di leopardo. Le relatà regionali a cui abbiamo dato vita perseguono tutte 3 obiettivi fondamentali: fare informazione e promuovere la conoscenza della patologia nonché produrre diagnosi preventive; facilitare l’accesso alle cure; fare advocacy, ossia fornire assistenza e tutela legale. Ad oggi il 49% delle donne a rischio ancora non accede al test identificativo, un muro da abbattere prima possibile. Sul lato delle cure abbiamo un nuovo farmaco che sta per entrare nell’uso compassionevole e che speriamo, passato questo perido d’uso, venga sdoganato dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco). La parola d’ordine su cui tutti ci muoviamo è ALLEATI SI VINCE, che vede tutti noi, pazienti ed esperti, uniti per una guerra lunga e difficile ad una malattia terribile, verso la quale guardiamo comunque ad un futuro pieno di speranza”.