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All’Accademia dei Lincei la due giorni per “Una visione storica dell’evoluzione del concetto di malattia e delle terapie”

23 Febbraio 2017 - CULTURA ED EVENTI

Siamo nell’ambito del XLIV seminario sull’EVOLUZIONE BIOLOGICA E I GRANDI PROBLEMI DELLA BIOLOGIA in svolgimento presso la sede capitolina dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Seminario centrato, in questa due giorni del 22 e 23 febbraio, sulla tematica dell’EVOLUZIONE DEL FARMACO. 

Durante l’incontro è stata presentata la lunga evoluzione del medicamento, a partire dalle prime intuizioni basate su quanto la natura offre: da qui i rimedi a base di erbe, tradizione che nei secoli non è mai scomparsa e che a tutt’oggi è in uso. Si è analizzata anche la connessione fra malattia del corpo e stato psichico, con un excursus verso la tradizione che voleva la malattia come segno divino. Una lunga analisi che è poi giunta fino alla chimica ed alla sperimentazione scientifica, settore evolutosi in modo costante, con un picco esponenziale negli ultimi decenni, grazie al connubio con il parallelo salto del progresso tecnologico. 

I presenti al convegno, promosso dal Centro Linceo interdisciplinare “Beniamino Segre” ed ospitato nell’Auditorium dell’Accademia dei Lincei, sono stati aggiornati sulle terapie cellulari e quelle geniche; i partecipanti hanno avuto poi le ultime informazioni disponibili in merito agli anticorpi monoclonali, nonché sulla personalizzazione delle terapie. “Basti pensare che da migliaia di nuove molecole sviluppate dalla ricerca si arriva solo a poche decine di possibili farmaci, che una volta sottoposti alla sperimentazione vengono cancellati al 90 % per problemi di sicurezza o di efficacia“.

Per gentile concessione di Giovanni Anzidei, Capo Ufficio Stampa dell’Accademia Nazionale dei Lincei, riceviamo e pubblichiamo di seguito Abstract dei principali interventi.

Buona lettura

 

Gilberto Corbellini

Dipartimento di medicina molecolare – Sapienza Università di Roma

Le idee culturali e mediche di malattia, e le strategie di cura hanno percorso una lunga coevoluzione. Le malattie, per definizione, sono antiche quanto la vita, ma è solo con la specie Homo sapiens in grado di categorizzarne anche cognitivamente le manifestazioni, che sono divenute sfide culturali per contenerne o prevenirne gli effetti. Alcune “terapie” empiriche sono descritte in animali non umani, mentre la trasmissione culturale delle esperienze ecologicamente contestualizzate ha portato a sviluppare i primi concetti di malattia ed elaborare terapie razionalmente conseguenti. Conosciamo le condizioni di vita dei nostri antenati preistorici, cioè le malattie di cui si ammalavano e in parte anche le provvisorie quanto scarsamente efficaci terapie di cui disponevano. Sappiamo anche che gli effetti placebo e gli stimoli funzionali ad innescarli si selezionarono in quel contesto ecologico sanitario. I più antichi concetti della malattia erano di carattere magico-superstizioso, per cui la malattia era ritenuta di una natura indipendente dal corpo (concetto ontologico) e operata da divinità o spiriti che la inviavano come sanzione o per capriccio. Conseguentemente tra gli stimoli che potevano innescare gli effetti placebo si selezionarono culturalmente figure dedicate a mediare tra gli dei o spiriti ed i pazienti, cioè lo sciamano, e le terapie praticate per gran parte della storia umana furono preghiere, sacrifici, incantesimi, etc. Naturalmente queste persone o altre figure più laiche praticavano trattamenti empirici, i cui effetti erano stati scoperti casualmente, costituiti da preparati minerali, animali o, prevalentemente, vegetali. Le credenze magico-superstiziose sulla natura della malattia sono ancora largamente prevalenti e diffuse nel mondo, e alla luce dei dati sugli effetti dei comportamenti religiosi per la salute, non è insensato ipotizzare che la disposizione umana alla religiosità si sia selezionata sotto la pressione delle malattie e degli effetti da queste prodotte, ovvero che le risposte placebo indotte da specifici stimoli comportamentali abbiano in parte rappresentato la base delle antiche credenze nella capacità di autocura del corpo.

Una svolta teorica con importanti ripercussioni per la medicina fu la dottrina umorale degli ippocratici (V-IV sec. pev), che rivoluzionò il concetto di malattia, abbandonando l’idea che fosse controllata da cause soprannaturali. Salute e malattia diventavano condizioni dinamiche e non diverse per natura: la malattia risultando da uno squilibrio (discrasia) fra quattro umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera) liberamente circolanti nel corpo. Di conseguenza la terapia cercava di intervenire o sulle cause della discrasia o cercando di ripristinare l’equilibrio attraverso salassi, purghe, diete, etc. La teoria umorale delle malattie, nella versione di Galeno (II sec.), dominava il pensiero medico fino al XVIII secolo.

Nel frattempo proliferava il numero di piante che i medici usavano su basi puramente empiriche e che nel primo secolo erano elencate nel De materia medica di Dioscoride, e cominciava a riscuotere successo un preparato (prevalentemente a base di oppio) chiamato la teriaca o triaca. Nel Cinquecento prenda avvio un processo che lentamente avrebbe portato a indagare la malattia e cercare le terapie con metodi scientifici. L’idea che ha catalizzato questo processo è stata la specificità delle malattie, cioè che le malattie potessero essere descritte e studiate come specie (vegetali) e che per ogni specie potesse esistere un rimedio specifico. Si trattava di una semplificazione, anche fuorviante, che ha prodotto rari risultati per secoli. Tuttavia, siccome le malattie prevalenti fino alla transizione sanitaria del Novecento erano causate da agenti infettivi, e quindi avevano davvero una causa specifica, nell’ultimo quarto del Novecento le malattie dovute a trasmissione di agenti microbici o parassiti diventavano il paradigma della “malattia”. L’idea semplificata era che ogni malattia ha una causa prossima, necessaria e sufficiente, e che la terapia deve cercare di eliminare quella causa. Se la causa sono i microbi o le sostanze tossiche si devono sviluppare strumenti chimici per uccidere i parassiti. Ispirandosi alle tecniche di colorazione istologica, alle dinamiche delle risposte immunitarie e alle idee di John Langley circa la presenza di sostanze recettive sulla superficie delle cellule per spiegare l’azione di mediatori chimici, il medico tedesco Paul Ehrlich concepiva nel 1906 la “chemioterapia” o “therapia sterilisans magna”, che prevedeva la creazione di “pallottole magiche” in grado di eliminare gli agenti patogene senza danneggiare l’ospite.

L’idea della chemioterapia ha prodotto la scoperta dei sulfamidici, e dopo la seconda guerra mondiale numerose terapie anticancro, che sono diventate sempre più mirate con l’invenzione degli anticorpi monoclonali. La lotta contro gli agenti infettivi è stata combattuta principalmente con vaccini e antibiotici, che hanno origini diverse: i vaccini sono uno sviluppo combinato di pensiero magico e osservazioni occasionali, mentre gli antibiotici sono scaturiti dalle scoperte dell’antagonismo microbico. Le strategie di controllo o eliminazione degli agenti infettivi si confrontano con il problema che questa popolazioni viventi possono adattarsi, diventando resistenti ai farmaci.

La medicina scientifica, fondata sulla sperimentazione, dava luogo a diverse specialità, tra cui la farmacologia. Gli avanzamenti della chimica e la nascita dell’industria farmaceutica portavano allo sviluppo rapido una ricerca e distribuzione di una cornucopia di farmaci: dai sedativi agli antinfiammatori, dagli antistaminici agli anticoagulanti, dagli psicofarmaci agli anticoncezionali, dagli anestetici agli antipertensivi, ai farmaci biologici, etc

I progressi scientifici miglioravano costantemente la comprensione dei meccanismi patogenetici in diversi contesti della fisiologia umana, portando anche alla luce il ruolo dei geni nel causare non solo le malattie ma anche la capacità individuale di rispondere o metabolizzare i farmaci. Parallelamente lo studio delle basi chimiche dell’azione dei farmaci consentiva di immaginare la progettazione delle molecole dotate di attività farmacologica ritagliate sui bersagli.

Nel modello fisiopatologico o sperimentale della medicina, al di là della lettura che ne è stata fatta nell’era dominata dalla microbiologica medica, l’idea di malattia è che questa sia una compromissione dell’omeostasi e che le terapie possano essere scoperte e usate con sicurezza sulla base di una conoscenza dell’eziopatogenesi. Tuttavia la conoscenza dettagliata dei meccanismi implicati nelle malattie degenerative o multifattoriali o degli effetti collaterali di un farmaco non sono ottenibili completamente in laboratorio o su modelli animali, per cui i pazienti sono a rischio di fare da cavie occasionali o di ricevere trattamenti non controllati. Dal 1948 si usano modalità standardizzare per stabilire la sicurezza e l’efficacia dei farmaci, vale a dire i trial clinici (randomizzati controllati in doppio cieco).