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Astri e divinità. La relazione del Prof. Manlio Pastore Stocchi ai Lincei. Abstract.

12 Giugno 2015 - ARCHIVIO

 

Per gentile concessione di:

Accademia  Nazionale  dei  Lincei

astri e divinità

Sintesi del discorso del prof. Manlio Pastore Stocchi tenuto alla cerimonia di chiusura dell’Anno Accademico dei Lincei.

 

 Poter osservare la volta celeste e leggervi, o di credervi rappresentate, infinite verità di fede, di scienza e di poesia costituisce il privilegio e il dovere che soprattutto distinguono la nobiltà dell’uomo. Ma non tutti, nel tempo, hanno letto quel libro allo stesso modo; e, sebbene l’aspetto del cielo sia per sé, nell’insieme, immutato, il suo messaggio non è sempre stato il medesimo.

La percezione dell’infinita profondità del cosmo è sopravvenuta molto tardi (dal Seicento in poi), e fino a poco più di quattro secoli fa si è creduto che le stelle fossero tutte ugualmente distanti da noi, infisse sulla superficie di un’unica sfera più esterna che, come un enorme guscio, avvolgesse e delimitasse l’intera macchina del sistema geocentrico. Perciò anche l’emozione che lo spettacolo del cielo stellato ha da sempre destato nell’uomo è, in realtà, storicamente differenziata.

Gli antichi amarono postulare volentieri un universo musicale, ove le sfere rotanti producono suoni armoniosi e perpetui che l’orecchio umano non avverte ma che solo la mente potrebbe concepire e far risuonare, per conforto, dentro di noi. Sebbene la filosofia peripatetica l’avesse negata, l’ipotesi di quelle melodie sideree giunse a sedurre persino il grande Keplero, nel trattato Harmonices mundi; e, prima di lui, Dante. Per noi, invece, l’universo tace oppure (ma solo per i radioastronomi) invia inarmonici segnali.

Inoltre, la coscienza che la luce non si propaga istantaneamente ma con velocità finita ci ha negato l’illusione che ammirando il cielo si possa cogliere un’immagine dell’universo attuale come quella di un familiare paesaggio terreno ammirato da una finestra o su una tela. Nel nostro cielo sta invece scritta, come ora sappiamo, una storia remota. Solo la poesia può invocare, come Leopardi, le «vaghe stelle dell’Orsa» con la fiducia di averle interlocutrici presenti e in fraterno ascolto; la ragione sa che il dialogo con un partner così lontano tenderebbe a sfilacciarsi nel vortice degli anni-luce.

Finché si diede per scontato che gli eventi cosmici ci fossero notificati, come oggi diremmo, in diretta, parve naturale integrarli, quali cause efficienti, in tutto quanto avviene nella nostra storia: l’astrologia, appunto, postulava un vincolo di immediata causalità tra gli astri e le sorti terrene. Ma si credette pure che reciprocamente anche il nostro umano agire si riflettesse nel cielo e ne mutasse l’aspetto, mediante l’identificazione nei pianeti dei propri dei e  l’assunzione in cielo di esseri o oggetti terreni  mutati in costellazioni.

Paradossalmente il vaglio della razionalità settecentesca non infierì su queste che le potevano apparire mere superstizioni: anzi, proprio uno dei maggiori astronomi del tempo, Jerôme de La Lande, dedicò molte pagine del proprio celebre Traité d’astronomie alla rivendicazione del valore di quei miti quali simboli e allegorie di ben reali  fenomeni astronomici. Se si era creduto che le divinità e i miti astrali assunti da ogni civiltà nei propri cieli fossero proiezioni di ciò che è stato umano, ora proprio la raison illuminata esaltava il vincolo fra poesia e universo invertendo però il flusso di quel nostro comunicare, e postulando invece che oggetti e fenomeni del cielo si sono trasferiti fino a noi e poeticamente adornati – ma non annullati –  in quelle favole.